
COME È SORTO E COME INTENDE SVILUPPARSI IL LABORATORIO DEL FUTURO, LA PIATTAFORMA DI DIALOGO PERMANENTE CHE MIRA A COINVOLGERE GLI INTELLETTUALI PER RIDEFINIRE LE COORDINATE DELLA NOSTRA CIVILTÀ
Fabio Cavallucci
Avviare una serie di confronti e discussioni tra intellettuali per ridefinire le coordinate della nostra civiltà potrà sembrare un’idea ingenua e idealista, addirittura utopistica nella sua eccessiva ambizione. Ma anche le utopie, quando sorgono da un’esigenza profonda, hanno un valore, possono indicare una direzione. Non è vero che le idee non contano, che solo le strutture organizzative ed economiche plasmano la società. Anche le parole hanno la capacità di trasformare il mondo. L’ideologia marxista, che sosteneva che le idee sono sovrastrutture dipendenti dall’economia e dai rapporti di produzione, per paradosso ha modificato radicalmente proprio l’economia e i rapporti di produzione. E ciò sia detto senza nessuna pretesa di assimilare questo progetto all’enorme rivoluzione prodotta dal marxismo.
L’idea di cui sto per raccontare, in realtà, non è mia. È nata nel corso di un incontro presso la sede dell’Editore Laterza a Roma quasi due anni fa. Eravamo una trentina di persone, invitate alla presentazione di un breve libretto di Zygmunt Bauman, L’ultima lezione, trascrizione della conferenza – purtroppo l’ultima – svolta dal grande polacco al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, di cui ero stato direttore. C’era Aleksandra Kania, moglie di Bauman, sociologa di lungo corso e figura di riferimento in Polonia. C’era Włodek Goldkorn, scrittore e giornalista eccezionale con cui ho più volte collaborato durante la mia direzione del Centro Pecci. Erano presenti anche Lucio Villari, Paolo Flores d’Arcais, il direttore della Fondazione Sant’Egidio, la direttrice del Festival di Filosofia di Modena, la giornalista e curatrice Adriana Polveroni e altri ancora. C’era, ovviamente, anche il padrone di casa, Giuseppe Laterza, che ad un certo punto, quando si arriva a toccare il culmine del Bauman-pensiero, afferma: “Sarebbe bello che la politica potesse usufruire di pensatori così profondi, se ci fosse un sistema per cui queste idee potessero filtrare nell’azione di chi governa”. Colto da improvvisa illuminazione, intervengo con pragmatismo: “Se così è, basta farlo! Basta creare un’organizzazione che dia spazio al pensiero degli intellettuali e favorisca il suo passaggio nell’azione politica”. L’argomento restò un po’ un sasso gettato nello stagno per quel giorno. Ma da ruminante quale sono, nelle settimane successive continuai a pensarci. Chiamai anche Laterza, che però, forse preso da altri mille problemi da editore, non si fece poi risentire.
Sarebbe bello davvero – e direi anche utile – se si potessero coinvolgere gli intellettuali, che sono i professionisti della cultura, per discutere delle contraddizioni del presente, per aiutare ad orientarci tra i cambiamenti epocali a cui il mondo è sottoposto. Da anni ormai la politica mostra di non essere più in grado di dare risposte a lungo termine. Spinta dalle contingenze elettorali finisce per pensare solo all’immediato, ascoltando la pancia degli elettori. Le ideologie, che nel bene e nel male ci hanno guidato per più di un secolo, sono terminate, dissolte con la caduta del muro di Berlino, o forse sfumate tra le scatole e le lattine del supermarket globale. Le religioni, che pure in qualche caso possono unire gruppi e determinare la politica di qualche Stato, faticano a costituire trend mondiali, ormai incapaci di definire persino una dominante etica tra i propri adepti. I social network e molti dei media contemporanei, pur favorendo la partecipazione, contribuiscono alla superficialità, creando un sistema di valori vuoti e di notizie false che sminuisce qualsiasi autorità. Così, in questo oceano senza riferimenti, vaghiamo senza direzione, senza un porto a cui attraccare. Siamo come il Fabrizio di Stendhal: immersi nella battaglia facciamo fatica a capire da che parte pende la vittoria. Perché non tornare allora a dare voce a chi dedica tempo e lavoro alla ricerca, agli esperti delle rispettive materie? Perché accontentarsi della superficialità quando possiamo guardare più in profondità i problemi che ci attanagliano? Perché non chiedere agli intellettuali di assumersi le proprie responsabilità pubbliche e sociali?
Provo a confrontare queste idee con qualche amico. Trovo attenzione e consenso, sia in Italia che all’estero. Piano piano si forma un gruppo di persone: l’artista Stefano W. Pasquini, con cui abbiamo condiviso lunghi anni di collaborazione per la rivista della Galleria Civica di Trento; Gian Marco Montesano, artista, ma anche sottile pensatore, un tempo vicino sia intellettualmente che fisicamente ai filosofi francesi: Derrida, Baudrillard, Guattari; Giovanna Bernardini, già attivissima Assessore alla Cultura di Carrara con cui realizzai una magnifica edizione della Biennale Internazionale di Scultura; Giovanni Sighele, imprenditore nel digitale, produttore dei siti d’arte più importanti in Italia; Andrea Cavallari, musicista e artista, direttore di un fantastico festival fiorentino all’incrocio dei due ambiti; Virginia Zanetti, anch’essa artista, di impronta relazionale, interessata agli aspetti collaborativi e aperti di questo lavoro; Lorenzo Bruni, acutissimo curatore d’arte contemporanea con cui condivido esperienze e collaborazioni da più vent’anni; e poi amici più recenti, Tiziana Casapietra, direttrice del Museo delle Ceramiche di Savona, ma anche responsabile di un sito di interviste a personalità internazionali della cultura e dell’arte; Alexandra Bolgova, artista e musicista russa in Italia e Huiming Hu, giovane artista cinese anch’essa in Italia, con cui sto collaborando nella Biennale di Architettura e Urbanistica di Shenzhen. Infine Andrea Cusumano, figura poliedrica: artista, già collaboratore del grande Hermann Nitsch, ma anche musicista, regista e performer, che come Assessore alla Cultura del Comune di Palermo ha portato la città alla conquista del titolo di capitale italiana della cultura e alla realizzazione di Manifesta, la Biennale europea d’arte contemporanea. Cusumano, decidendo di ospitarci nell’ambito del Festival Bam, di cui è direttore artistico, ha trasformato il progetto in realtà.
Pensiamo a come potrebbe funzionare: una serie di appuntamenti pubblici, dibattiti, incontri, conferenze, in cui gli intellettuali sono chiamati a confrontarsi sui temi all’ordine del giorno, quelli che sembrano scaturire con più forza dalla nostra fumosa ma eruttante contemporaneità. E poi ovviamente un sito che possa raccogliere questo dibattito, allargarlo e rilanciarlo. Giunge anche un nome, Laboratorio del futuro, che riprende il titolo di un progetto avviato quando ero direttore del Centro per l’Arte Contemporanea di Varsavia.
Così il neonato movimento culturale, piccolo ma potenzialmente in espansione, comincia a camminare. Nulla di più di quanto fanno già tanti festival e assessorati alla cultura, si dirà. O nulla di diverso di quanto accadeva proprio in quell’incontro presso Laterza dove è scaturito il primo embrione dell’idea. E in un certo senso è vero.
Ma un’importante differenza rispetto agli incontri nei salotti c’è. Un errore delle tradizione culturale è stato proprio il fatto che gli intellettuali hanno spesso preferito restare nella torre d’avorio, autosufficienti e chiusi nei loro gruppi. Non è più il tempo di prendere decisioni (e nemmeno di indicare indirizzi) in un’élite nel chiuso di una stanza. Una cosa va accolta dai movimenti cresciuti con le reti digitali: i processi di selezione e decisione non possono che essere larghi e aperti, trasparenti, in qualche modo democratici. Ci piaccia o meno dobbiamo accettare la rivoluzione attuata dai social network. Certo, non ne possiamo più della superficialità dei like, di coloro che giudicano senza nemmeno aver letto il contenuto, di stupidi haters e di vuoti influencers. Tuttavia non possiamo non fare i conti con questo cambiamento epocale nei processi di diffusione e selezione, anche nell’ambito culturale.
Ma se la democrazia digitale è un obbligo, non vuol dire che la tendenza debba essere necessariamente verso il basso. Nella mia esperienza personale, posso dire di avere riscontrato che negli anni recenti, almeno nei mondi che ruotano attorno al mondo dell’arte, dopo l’abbuffata di opening e di eventi, dopo gli eccessi di chiccera e di vip preview, si è cominciata a riscontrare una minoranza (in espansione) stufa della superficialità, che desidera andare più a fondo nelle questioni. Ancora ricordo al Centro Pecci le 700 persone (superando di gran lunga la capienza legale del museo) per l’ultima lezione di Zygmunt Bauman; o le più di 800 al Teatro Politeama per David Grossmann. Senza contare la larga diffusione e il successo dei vari festival di filosofia, economia, letteratura. Il desiderio di approfondimento non è morto e non riguarda solo persone della generazione matura, ma interessa anche i giovani.
Ciò fa dunque sperare. È vero che ancora Instagram impazza e insulsi influencers raggiungono milioni di followers. È vero che nuove app si sviluppano, come Tik Tok, che conquista un miliardo di iscritti solo mostrando brevi video che invitano al cazzeggio. Ma c’è anche, sul versante opposto, una minoranza in crescita che vuole approfondire, conoscere, capire.
Ecco allora il Laboratorio del futuro, un progetto che non vuole essere esclusivo, ma che al contrario intende associarsi a tanti altri, nella speranza di vedere presto un pullulare di conferenze e incontri, di dibattiti e lecture. Ma una differenza il Laboratorio la manifesta anche nei confronti dei festival, ai quali vuole apportare proprio un elemento in più di concretezza: il suo intento non è solo di affrontare temi una tantum, discutere per discutere, magari in un confronto tra opposte visioni assai attraente per il pubblico, ma di attuare processi di negoziazione che portino gradualmente a qualche comune consenso.
Qui sta il punto più alto dell’utopia: l’aspirazione di arrivare a definire i contorni culturali ed etici della civiltà del nostro tempo, sviscerandone i temi e individuando pian piano degli indirizzi comuni. Un traguardo che non può che essere definito da successive legittimazioni ottenute attraverso un consenso democratico riguardo alle risposte ai principali temi.
E quali sono dunque questi temi? Di alcuni ça va sans dir. L’ecologia, innanzitutto. Stiamo attraversando una dei più gravi crisi climatiche che l’umanità abbia mai incontrato e per di più creata proprio dall’uomo. È chiaro che servono interventi sostanziali, che devono essere attuati dagli Stati o dalle grandi multinazionali, ma occorre anche una nuova etica ecologica e questa non può che venire dalla messa in discussione di abitudini quotidiane non più sostenibili. Non è solo una questione di comportamenti pratici, ma di cambiamento di mentalità, che non può che ripartire dall’esame critico delle idee di progresso, di crescita indefinita, di capitalismo galoppante.
Un altro dei temi fondamentali per il dibattito attuale è quello delle nuove tecnologie. Argomento in gran parte trasversale, che richiede una discussione profonda, perché siamo di fronte a una rivoluzione di portata simile solo ad altre due nella storia dell’umanità: la rivoluzione cognitiva, che circa 70.000 anni fa ha dato all’Homo Sapiens la capacità di un linguaggio e di un pensiero astratti, e quella agricola, che circa 10/12.000 anni fa ha reso l’uomo sedentario, dando il via alla costruzione di case, infrastrutture, città. Oggi stanno per sopraggiungere tecnologie che svolgeranno le attività che siamo soliti svolgere noi. L’avvento della robotica, dell’Internet delle Cose, dei veicoli senza conducente, dell’Intelligenza Artificiale, per la prima volta nella storia sta per creare un sistema che funziona senza l’uomo. E dunque, al di là della discussione sui vari strumenti, sull’impatto che essi producono nei singoli individui e nell’organizzazione sociale, la domanda da porsi diventa: quale sarà la funzione dell’uomo, quale il suo posto in questo nuovo mondo che non ha più bisogno di lui?
A questi argomenti si lega anche un tema che ha costituito uno dei campi di battaglia del pensiero filosofico e politico degli ultimi due secoli, quello del lavoro. Solo che non si tratta più di discutere dello sfruttamento del lavoro proletario, o di quello intellettuale, ma della loro fine. Proprio le nuove tecnologie stanno sostituendo le attività umane con strumenti artificiali, tanto che l’uomo, presto, non servirà più. Non si tratta di una previsione avveniristica. Solo per fare un esempio, negli Stati Uniti si calcola che almeno il 30 % delle persone sia attualmente impiegato nei trasporti e nella logistica. Ebbene, tutti i sistemi per rendere queste attività automatiche, senza bisogno della presenza umana, sono già inventati e sono ormai in avanzata fase di sperimentazione, dai veicoli senza conducente ai droni per la consegna pacchi, che già volano nelle campagne della Virginia e del Wisconsin. Quando saranno perfezionati, autorizzati e garantiti, da un giorno all’altro il 30 % dei lavoratori americani perderà il posto. E qui si aprono questioni fondamentali, dalla necessità di trovare nuove modalità per la ridistribuzione del reddito fino al capire cosa potrà definire il valore dell’uomo, dal momento che da secoli siamo abituati a dare senso alla nostra vita attraverso il lavoro che facciamo.
Che dire poi dell’economia, di quell’ambito divenuto ormai totalizzante, tanto da avere soverchiato qualsiasi altro concetto di valore, da riportare a numero qualsiasi attività umana. Sarà il capitalismo ancora il principale motore di sviluppo della società, o occorrerà trovare altre modalità? Continuerà ad essere sempre quello economico il metro di importanza di ogni cosa, o potremo trovare altre indicazioni di valore, magari legate ai contenuti invece che ai numeri?
E poi c’è il grande tema della democrazia, antico strumento di governo, considerato il migliore, il più adatto a garantire la libertà individuale e a sviluppare le potenzialità umane, che per quanto non ancora conquistato in ogni Stato sembra talvolta vacillare quasi per un eccesso del suo stesso principio, dal momento che i mezzi di comunicazione contemporanei favoriscono e quasi sollecitano il passaggio dalla democrazia rappresentativa a quella diretta, dalla visione in prospettiva a quella immediata, basata spesso sul sentimento del momento, col che il sistema diventa facile preda di distorsioni e populismi.
Ma tanti ancora sono gli argomenti che il Laboratorio vuole affrontare, dal problema demografico, con l’intento di allargare lo sguardo rispetto al tema ristretto delle migrazioni, che rischia di dare solo una visione parziale del problema, a quello dei rapporti di genere, quando ancora le donne, anche nei paesi occidentali, non hanno raggiunto la piena parità, almeno per quanto riguarda le posizioni di potere e i salari, mentre tante discriminazioni avvengono ancora sulla base delle identità e delle tendenze sessuali. In un certo senso non c’è tema di ampia portata, potenzialmente globale, che non sia utile sottoporre alla discussione.
È chiaro che nel momento in cui viene creato in Italia, il Laboratorio del futuro non può che partire da un’angolazione europea e occidentale. Ma non può non tenere conto delle diversità, perché il mondo cresce nelle differenze. Il suo sguardo non può non essere globale, perché i problemi sono ormai globali, e oltretutto quasi sempre correlati.
Raggiungerà il Laboratorio del futuro l’ambizioso obiettivo che si è prefisso? Nessuno può dirlo, per il momento. Ma di sicuro un obiettivo l’ha già raggiunto: di spostare un poco l’attenzione sul valore della conoscenza e dell’approfondimento. In tempi in cui sembra che valga di più la performance di un influencer del lavoro faticoso di un premio Nobel, tornare a sottolineare il valore della cultura, fosse anche in qualche piccolo grado, non può non essere già considerato un risultato che non mancherà di influenzare altri.
Ciao Fabio, ho letto attentamente il progetto , mi congratulo per l’ attenta e dettagliata analisi, credo che in questo momento sia davvero necessario un dibattito costruttivo sui temi che hai citato e credo che molti giovani siano interessati. Sono fermamente convinta che non si possa accettare di vivere in un mondo senza cultura e senza ideologie, senza ideali. Spero davvero che il progetto abbia successo. Un affettuoso abbraccio
Ughetta